Teste di Moro
Si cunta e si ricunta che un’estate di tanti anni fa un principe moro, camminando a Palermo per le viuzze della Kalsa, udì come voce d’usignolo il canto d’una fanciulla provenire da un balcone fiorito.
Col passo leggero e sicuro di chi attraversa i deserti guidando uomini e cammelli, s’accostò al balcone e rimase rapito: al di là del gelsomino una stupenda fanciulla era china ad annaffiare raste colme di basilico, mentre gli ultimi raggi del sole ne bagnavano i morbidi capelli e le guance di pesca.
Riscossosi il moro scostò le fronde più vicine e quando lei lo vide egli iniziò a parlarle.
Paragonandole ai suoi occhi le narrò le meraviglie del mare e del deserto; con parole dolci e speziate cantò lodi alla sua bellezza.
Da quella sera per tutte le sere tornò dalla fanciulla portandole doni preziosi della sua patria lontana. Da quella sera per tutte le sere tornò dalla fanciulla parlandole d’amore.
Ella, sorpresa da tante attenzioni, rapita dai tratti esotici del suo volto scuro e dal candore perlaceo dei suoi sorrisi, una sera d’agosto ricambiò con amore l’amore delle sue parole.
Il tempo però passava e correva, la stagione finiva, il basilico appassiva. Una sera il cielo era coperto sopra il balcone fiorito: il moro tenendo il capo chino salutò la fanciulla. Nelle terre del Garbo l’attendevano i figli e le mogli. Vi fu un urlo e in quella notte senza luna il moro sparì.
Venne allora la tempesta e la pioggia amara, mentre le lacrime della fanciulla già inondavano le raste sul balcone riparato. Così le lacrime fecero tornar verde il basilico e i vicini, che videro tutto questo, vollero che sui loro balconi le raste di basilico avessero il volto della bella e del moro.